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La via di Luang Por |
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© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA. Traduzione di Chandravimala Candiani. |
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IL MIO PRIMO INCONTRO CON AJAHN CHAH avvenne
durante la luna piena nel dicembre
del 1978. Quell’anno, avevo passato il ritiro delle piogge, come laico
con gli otto precetti, con Ajahn Sumedho a
Oakenholt, in Inghilterra. Dopo il ritiro ero partito per la Thailandia.
Arrivato a Wat Pah Pong, il venerabile Pamutto, un monaco australiano a
quel tempo residente lì, mi portò da Ajahn Chah. Era seduto sotto il suo
kuti e sorbiva una bevanda. Mi guardò e mi sorrise con grande calore. Mi
tese la bevanda che aveva in mano, così mi allungai carponi e la presi.
Tornato al mio posto, mi ritrovai con gli occhi pieni di lacrime. Rimasi
per un po’ sopraffatto dall’emozione. Da quel giorno penso di non aver
mai desiderato di lasciare il monastero o di fare qualsiasi altra cosa,
fuorché essere discepolo di Ajahn Chah.
Spesso la gente pensava che ci fossero dei problemi
linguistici per gli occidentali che volevano stare al monastero, ma non
era così. Una volta, qualcuno chiese ad Ajahn Chah: “Luang Por, come
insegni ai tuoi discepoli occidentali? Parli inglese o francese?
Giapponese o tedesco?”
“No.” ripose Ajahn Chah.
“E allora come fai a gestirli tutti?”
“Capofamiglia, – chiese Ajahn Chah – a casa tua hai
bufali d’acqua?”
“Sì, Luang Por.” fu la risposta.
“Hai mucche, cani o galline?”
“Sì, Luang Por.”
“Dimmi – chiese Luang Por – parli la lingua dei
bufali o quella delle mucche?”
“No.” rispose il capofamiglia.
“E come fai allora?”
Il linguaggio non era molto importante per Luang
Por. Sapeva penetrare oltre gli orpelli esteriori del linguaggio e della
cultura. Riusciva a vedere come fondamentalmente tutte le menti girano
intorno agli stessi vecchi cerchi di avidità, odio e illusione. Il suo
metodo di tirocinio consisteva nel puntare direttamente al modo in cui
funziona la nostra mente. Dimostrava in continuazione come la brama dia
origine alla sofferenza, aiutandoci in sostanza a vedere direttamente le
Quattro Nobili Verità. E per lui il miglior metodo per esporre il
desiderio era quello di frustrarlo. Nel suo vocabolario, le parole
‘insegnare’ e ‘tormentare’ erano più o meno intercambiabili.
Questo tipo di tirocinio può funzionare solo se
tutti nel monastero hanno grande fiducia nel maestro. Se ci fosse il
minimo sospetto che il maestro si comporti così per avversione o per
desiderio di potere, non ne risulterebbe allora alcun beneficio. Nel
caso di Ajahn Chah, chiunque poteva scorgere il suo immenso coraggio e
la sua forza d‘animo, avendo così fiducia che il suo comportamento
nasceva dalla compassione.
Innanzi tutto, egli insegnava il lasciar andare. Ma
insegnava anche cosa fare quando non si riesce a lasciar andare.
“Tolleriamo” avrebbe detto lui. Di solito, la gente apprezza
intellettualmente i discorsi sul lasciar andare, ma quando si trovano
davanti a un ostacolo non riescono a farlo. L’insegnamento della
tolleranza paziente era un aspetto centrale del suo modo di insegnare.
Cambiava continuamente le abitudini del monastero, in modo che non ci si
potesse fissare nelle consuetudini. Come risultato ti ritrovavi a non
saper bene su cosa ti tenevi in piedi. E lui era sempre lì ad osservare,
così che non ti abbandonassi alla distrazione. Questo è uno dei grandi
vantaggi del vivere con un maestro, si sente il bisogno di essere
consapevoli.
Venendo a conoscenza degli anni giovanili di Ajahn
Chah, è stato ispirante per me scoprire quanti problemi avesse avuto. Le
biografie dei grandi maestri ti lasciano l’impressione che i monaci
siano perfettamente puri già dagli otto o nove anni e che non abbiano da
lavorare per la loro pratica. Ma per Ajahn Chah la pratica fu molto
difficile; prima di tutto ebbe moltissimo desiderio sensuale. Ebbe anche
un forte desiderio per la bellezza degli oggetti, come le ciotole o le
tuniche. Affrontò con risolutezza queste tendenze, decidendo che non
avrebbe mai chiesto niente, anche se era permesso dalla Disciplina.
Raccontò una volta come le sue tuniche andassero a pezzi; la sua
sottoveste era diventata sottile come carta tanto che doveva camminare
con molta attenzione perché non si spaccasse. Un giorno, distrattamente,
si accovacciò e così la sottoveste si ruppe del tutto. Non aveva stoffa
per rammendarla, ma gli vennero in mente gli stracci per pulirsi i piedi
nella sala di riunione. Così, li andò a prendere, li lavò e riaggiustò
la sua tunica.
Quando più tardi ebbe dei discepoli, eccelleva
nella scelta di mezzi abili per aiutarli: aveva avuto lui stesso così
tanti problemi! In un’altra occasione, parlò di come aveva preso la
risoluzione di lavorare intensamente col desiderio sensuale. Decise che
per i tre mesi del ritiro delle piogge non avrebbe mai guardato una
donna. Avendo una forte volontà, ci riuscì. L’ultimo giorno del ritiro,
arrivò molta gente al monastero per portare le offerte. Pensò: ormai
l’ho fatto per tre mesi, vediamo ora cosa succede. Sollevò lo sguardo e
in quel momento c’era una giovane donna proprio di fronte a lui. Disse
che l’impatto fu come essere colpito da un fulmine. Fu allora che
comprese che il semplice contenimento sensoriale, benché essenziale, non
era sufficiente. Non importava quanto contenuti si poteva essere
riguardo alla vista, all’udito, all’olfatto, al gusto, al corpo e alla
mente, se non c’è saggezza per comprendere la vera natura del desiderio,
la libertà da esso era impossibile.
Ha sempre sottolineato l’importanza della saggezza:
non solo contenimento, ma consapevolezza e contemplazione. Buttarsi
nella pratica con grande gusto, ma poca capacità riflessiva ha come
risultato una forte pratica di concentrazione, ma porta alla fine alla
disperazione. I monaci che praticano così di solito arrivano a un punto
in cui decidono di non avere ciò che è necessario per riuscire in questa
loro esistenza e così lasciano la veste. Egli insistette che lo sforzo
continuo è molto più importante del fare un grande sforzo per un breve
periodo, per poi lasciar perdere tutto. Giorno per giorno, mese per mese,
anno per anno: questo è il vero strumento della pratica.
Ciò che occorre nella pratica della consapevolezza,
insegnava, è una costante consapevolezza di cosa pensiamo, facciamo o
diciamo. Non è importante se siamo o meno in ritiro, se siamo in
monastero o siamo in pellegrinaggio; ciò che conta è la perseveranza.
Quello che sto facendo ora: perché lo sto facendo? Osservare
continuamente per vedere cosa accade nel momento presente. Questo stato
mentale è grossolano o purificato? All’inizio della pratica, spiegava,
la nostra consapevolezza è intermittente come l’acqua che gocciola da un
rubinetto. Ma continuando, gli intervalli tra le gocce diminuiscono e si
può creare alla fine un flusso. Questo flusso di consapevolezza è ciò a
cui miriamo.
E’ significativo che egli non parlasse granché dei
livelli d’illuminazione o dei vari stadi di assorbimento concentrativo
(jhana). Era consapevole di come la gente tenda ad attaccarsi a questi
termini e concetti della pratica, come il passare da uno stato a un
altro. Una volta qualcuno gli chiese se il tale o il tal altro fossero
arahant, fossero illuminati. Rispose: “Se lo sono, lo sono. Se non lo
sono, non lo sono. Tu sei quel che sei, non sei come loro. Dunque, fai
la tua pratica.” Tagliava corto con domande del genere.
Quando gli facevano domande sulla sua realizzazione,
non parlava mai elogiandosi, né si faceva mai alcun vanto. Parlando
della stoltezza della gente, non diceva mai: “Tu pensi così o cosà” o
“Tu fai così o cosà”, ma piuttosto: “Noi facciamo così”. La capacità di
parlare in modo personale faceva sì che i suoi ascoltatori se ne
andassero sentendo che aveva parlato direttamente a loro. Spesso
succedeva anche che qualcuno arrivava con dei problemi personali di cui
avrebbe voluto discutere con lui, e che la sera stessa, egli facesse un
discorso proprio su quel tema.
Nel coordinare i suoi monasteri, prese molte idee
dal grande maestro di meditazione Ajahn Mun, ma anche da altri luoghi
che egli visitò durante i suoi anni di pellegrinaggio. Mise sempre molto
l’accento sul senso della comunità. In una sezione del Mahaparinibbana
Sutta (dialoghi del Buddha, sutta n° 16) il Buddha spiega che il bene
del Sangha dipende dall’incontrarsi spesso, numerosi, in armonia e nel
discutere insieme. E Ajahn Chah lo sottolineò moltissimo.
La disciplina del Bhikkhu, il Vinaya, era per Ajahn
Chah uno strumento essenziale di tirocinio. L’aveva scoperto nella sua
stessa pratica. Spesso teneva discorsi su questo argomento fino all’una
o alle due di notte; e la campana suonava poi alle tre per i canti del
mattino. Spesso, i monaci non volevano tornare nei loro kuti, temendo di
non riuscire a svegliarsi, così si sdraiavano sotto un albero.
Specialmente nei primi anni del suo insegnamento,
la vita era molto dura. Anche cose essenziali, come lanterne e torce
erano rare. A quei tempi, la foresta era buia e fitta, con molti animali
feroci. A notte alta, si sentivano i monaci tornare alle loro capanne,
creando forti rumori, pestando i piedi e cantando. Una volta furono
donate al monastero venti torce. Ma una volta consumate le pile,
ritornarono nelle scorte, perché non c’erano pile nuove.
Ajahn Chah era talvolta molto duro con chi viveva
con lui. Lui stesso ammetteva di essere in vantaggio sui suoi discepoli,
diceva che quando la sua mente entrava in samadhi (concentrazione) per
mezz’ora, per lui era come aver dormito tutta la notte.
Talvolta, parlava letteralmente per ore.
Continuando a parlare e riparlare sempre delle stesse cose, raccontando
la stessa storia centinaia di volte. Per lui ogni volta era come se
fosse la prima. Se ne stava seduto ridacchiando e sogghigando e tutti
guardavano l’orologio chiedendosi quando li avrebbe lasciati andare.
Sembrava avere un debole per chi soffriva molto,
cioé di solito i monaci occidentali. C’era un monaco inglese, il
venerabile Thitappo, a cui dedicò molta attenzione; il che significa che
lo tormentò terribilmente. Un giorno, c’erano molti visitatori al
monastero e, come faceva spesso, Ajahn Chah elogiava ai thailandesi i
monaci occidentali, per istruirli. Spiegava quanto gli occidentali
fossero intelligenti, quante cose riuscissero a fare e che buoni
discepoli fossero. “Tutti, – disse – eccetto costui, – e indicò il
venerabile Thitappo – che è veramente stupido.” Un’altra volta, chiese
al venerabile Thitappo: “Ti arrabbi quando ti tratto così?” Il
venerabile Thitappo rispose: “A cosa servirebbe? Sarebbe come
arrabbiarsi con una montagna.”
Spesso, qualcuno diceva ad Ajahn Chah che era come
un maestro Zen. “No, – replicava lui – io sono come Ajahn Chah.”
Una volta, arrivò in visita un monaco coreano a cui
piaceva presentargli dei koan, Ajahn Chah era completamente confuso,
pensava che fossero barzellette. Era interessante vedere come si
dovessero conoscere le regole del gioco per poter dare la risposta
giusta. Un giorno, questo monaco raccontò ad Ajahn Chah la storia della
bandiera e del vento e chiese: “E’ la bandiera che si muove o è il vento?”
Ajahn Chah rispose: “Nessuno dei due; è la mente.” Il monaco coreano la
trovò una risposta meravigliosa e immediatamente si inchinò ad Ajahn
Chah. A quel punto, Ajahn Chah confessò di aver letto la storia nella
traduzione thailandese di Hui Neng.
Molti di noi tendono a confondere la profondità con
la complessità, così ad Ajahn Chah piaceva dimostrare come la profondità
fosse in effetti semplicità. La verità dell’impermanenza è la cosa più
semplice del mondo, ma è anche la più profonda. Ajahn Chah continuava a
sottolinearlo. Diceva che la chiave per vivere nel mondo con saggezza
sta nel ricordare regolarmente la natura cambiante delle cose. “Non c’è
niente di sicuro.” ci ricordava in continuazione, usando l’espressione
thailandese: “Mai-naa!”, che significa “incerto”. L’insegnamento che non
c’è niente di certo, diceva, riassume tutta la saggezza del buddhismo.
“In meditazione, – insisteva – non possiamo superare gli ostacoli, se
non li comprendiamo pienamente.” Il che significa conoscere la loro
impermanenza.
Parlava spesso di “uccidere le contaminazioni”,
anche in questo caso nel senso di vederne l’impermanenza. “Uccidere le
contaminazioni” è un’espressione idiomatica della tradizione meditativa
della foresta del nord est della Thailandia. Significa che, vedendo con
penetrante chiarezza la vera natura delle contaminazioni, le riesci a
superare.
Anche se in questa tradizione si considera impegno
di un bhikkhu dedicarsi alla pratica formale, questo non significa che
non ci fossero lavori da fare. Quando è necessario lavorare, lavora. E
non creare un inutile trambusto. Il lavoro non è affatto diverso dalla
pratica formale, se si ha una conoscenza corretta dei principi che si
applicano in entrambe le situazioni, perché si tratta pur sempre dello
stesso corpo e mente.
E nei monasteri di Ajahn Chah quando i monaci
lavorano, lavorano davvero. Una volta, Ajahn Chah voleva che venisse
costruita una strada per il monastero di montagna Wat Tum Saeng Pet, e
il dipartimento stradale si offrì di collaborare. Ma per molto tempo
continuarono a rimandare. Così, Ajahn Chah portò lassù i monaci perché
lavorassero loro. Tutti lavoravano dalle tre del pomeriggio alle tre del
mattino seguente.
Era permessa una pausa solo dopo le cinque, quando
scendevano dalla collina verso il villaggio per il giro dell’elemosina.
Dopo il pasto, potevano di nuovo riposare fino alle tre, per poi
ricominciare di nuovo a lavorare. Ma Ajahn Chah non riposava mai; era
sempre impegnato a ricevere i visitatori. E quando era ora di lavorare,
non si limitava alla direzione dei lavori. Si univa agli altri nel duro
lavoro di sollevare e trasportare pietre. Era di grande ispirazione per
i monaci: attingere acqua dal pozzo, spazzare e così via, era sempre
pronto e presente, finché la sua salute non cedette.
Ajahn Chah non era sempre benvisto nella sua
provincia nel nord est della Thailandia, anche se aveva portato molti
cambiamenti importanti nella vita degli abitanti. Nei loro sistemi di
credenza c’era un grande retaggio di animismo e superstizione.
Pochissimi praticavano la meditazione per paura che li facesse impazzire.
Erano più interessati ai poteri magici e ai fenomeni psichici che al
buddhismo. Era molto praticata l’uccisione di animali per il
conseguimento di meriti. Ajahn Chah era esplicito riguardo a questi
argomenti, così, all’inizio, si fece molti nemici.
Tuttavia, erano sempre in molti ad amarlo. Ed era
chiaro che non se ne avvantaggiava mai. In effetti, se qualcuno dei suoi
discepoli entrava in troppa familiarità con lui, lo mandava via.
Talvolta, i monaci si attaccavano a lui, e lui prontamente li mandava in
qualche altro monastero. Con le sue qualità carismatiche, sottolineava
spesso l’importanza del Sangha, dello spirito di comunità.
Mi ricordo che un Capodanno, secondo le usanze,
arrivarono in molti al monastero. Dopo i canti serali, Ajahn Chah tenne
un discorso, seguito dalla meditazione. Poco prima della mezzanotte,
qualcuno entrò ad annunciare che dal monastero del villaggio era
arrivato un monaco anziano. Ricordo come Ajahn Chah uscì a ricevere
personalmente il monaco: rientrò portando la borsa del monaco e si mise
a distendergli la stoffa per sedersi. Poi si prostrò nei più bei tre
inchini che io abbia mai visto. Espresse in ogni modo una sincera umiltà,
come se fosse un monaco appena ordinato. In mezzo a centinaia di suoi
discepoli, sembrava completamente immune a tutte le sensazioni di
inadeguatezza che molti di noi sentivano.
Penso che proprio perché Ajahn Chah non era nessuno
di particolare riusciva ad essere chiuque volesse. Se sentiva che era
necessario essere fieri, lo era. Se sentiva che qualcuno aveva bisogno
di calore e di gentilezza, glieli offriva. Avevi la sensazione che
poteva essere qualsiasi cosa fosse utile alla persona con cui si trovava.
Ed era molto chiaro riguardo all’appropriata comprensione delle
convenzioni. Una volta, qualcuno gli pose una domanda circa i meriti
degli arahant e dei bodhisattva. Rispose: “Non essere un arahant, non
essere un bodhisattva, non essere proprio nessuno. Se sei un arahant,
soffrirai; se sei un bodhisattva, soffrirai, qualsiasi cosa tu sia,
soffrirai.” Avevi la sensazione che lui non fosse nessuno in particolare.
La qualità da cui ci si sentiva ispirati era la luce del Dhamma che lui
rifletteva; non era lui in quanto persona.
Dunque, fin dal mio primo incontro con Ajahn Chah,
ebbi l’inscalfibile convinzione che questa via è davvero possibile, che
funziona, che è buona. E ho coltivato l’impegno a riconoscere che se ci
sono dei problemi, sono io che li creo, non il sistema nè gli
insegnamenti. Questa valutazione ha reso le cose molto più facili.
E’ importante riuscire ad imparare da tutti gli
alti e bassi che attraversiamo nella pratica. E’ importante arrivare a
sapere come “essere per noi stessi un rifugio”, per vedere da noi stessi
con chiarezza. Quando penso che pantano di egoismo e di follia avrebbe
potuto essere la mia vita... E poi rifletto sugli insegnamenti e i
benefici che ho ricevuto, penso che voglio dedicare la mia vita per far
onore al mio maestro. Questa riflessione è stata una sorgente di forza.
Una forma di sanghanusati, di “contemplazione del Sangha”, di
riflessione sul grande debito che abbiamo con i nostri insegnanti.
Spero che possiate trovare tutto questo di qualche aiuto alla vostra pratica.
Ajahn Jayasaro, monaco inglese, era, fino a
poco tempo fa, abate in Thailandia del Wat Pah Nanachat. Adesso sta
lavorando alla traduzione in inglese della biografia ufficiale di
Luang Por Chah, da lui scritta in thailandese e distribuita nel 1993
in occasione del funerale. Questo discorso è stato tratto da una
antologia di insegnamenti di discepoli occidentali di Ajahn Chah,
"Seeing the Way", in corso di traduzione in italiano per future
pubblicazioni.
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Source : http://santacittarama.altervista.org/insegnamenti.htm
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